Ecco il programma ufficiale della visita dei familiari del pilota americano Victor Phelps al luogo ove cadde l’aereo del loro congiunto. Prevede queste iniziative.

SABATO 29 APRILE

Cerimonia ufficiale.

Al mattino alle ore 10, presso la sala del Consiglio del comune di Castel Bolognese, incontro ufficiale delle due Amministrazioni comunali con Norma Sue Stephenson, vedova dell’aviatore americano Victor L. Phelps che con il suo areo cadde nei pressi del fiume Senio nell’autunno del 1944.

Il programma è il seguente:

Saluti introduttivi del Sindaco di Castel Bolognese e del Sindaco di Solarolo.

Interventi di: Andrea Soglia – esperto di storia locale; Andrea Raccagni e Enzo Lanconelli – Associazione Aerei Perduti (Romagna e Polesine); Marco Dalmonte – Associazione Senio River 1944 – 1945; Enzo Casadio – collaboratore Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Ravenna e provincia.

Verrà consegnata alla signora Stephenson una targa celebrativa di ceramica (da parte delle Amministrazioni) e un quadretto con alcuni frammenti del P-47 Thunderbolt del pilota Phelps ritrovati alcuni decenni fa col metaldetector e corredato con una foto dell’aereo stesso fatta all’epoca dal dr. Arturo Frontali e con la dicitura in lingua inglese (da parte dell’associazione Aerei Perduti).

Cena insieme.

La sera alle ore 19, presso la sala Arci – via Emilia Interna 137 Castel Bolognese – salutiamo gli ospiti americani in visita con CENA INSIEME.

Metteremo in tavola: Tagliatelle al ragù (fatte in casa), misto di salumi affettati e formaggi con piadina e contorni, insalata con erbe del Senio, dolci di casa, vini dei nostri contadini.

Chiederemo un contributo di 18 euro per autofinanziare l’evento visita (anche con Satispay, cercando in Negozi: Amici del fiume Senio)

Prenotazione entro giovedì 27 aprile a:

mail amicifiumesenio@gmail.com; Domenico cell 340 0532380; Sandra (Anpi Solarolo) cell 3311380583; Lucio (Anpi Castel Bolognese) cell 3311050395

DOMENICA 30 APRILE

Cerimonia sul campo.

Camminata nel Senio della memoria. Da Castel bolognese e da Solarolo, ci incontriamo al passo di Lungaia con Norma Stephenson, vedova di Victor Phelps, nel luogo dove il soldato americano cadde con l’aereo durante la guerra.

Partenza a piedi (o in bici):

  • da Castel Bolognese – ore 14,30 da piazza Bernardi (Ponte del Castello, argine e ritorno per le vie Rezza e Casanola. A e R circa 10 km).
  • da Solarolo – ore 14,45 dal Ponte di Felisio, parcheggio presso la chiesa) (argine fino al luogo dell’incontro con i castellani. A e R circa 10 km).

Sul luogo ricorderemo l’evento bellico, presenti le Autorità. Suonerà la Banda. Al tavolo delle Associazioni, offriremo un piccolo ristoro. Chiederemo un contributo volontario per concorrere alle spese dell’iniziativa.

È gradita la prenotazione:

Il percorso non presenta difficoltà, tuttavia occorre essere in buona salute. Si consiglia di calzare pedule antiscivolo e di portare con se una modesta riserva di acqua da bere. Occorre procedere in gruppo. I minori dovranno essere accompagnati.

Crediamo che l’evento in se sia di elevato significato morale e di ampio interesse e vada quindi oltre la portata delle Associazioni e delle persone che l’hanno determinato e promosso. Confidiamo pertanto in una risposta corale del mondo istituzionale, associativo di ogni settore e di tutta la popolazione.

Cari concittadini, confidiamo di vedervi in tanti alle varie iniziative e che molti di voi partecipino alle varie forme della loro non semplice gestione. Vi aspettiamo.

 

 

Il 2 febbraio di 227 anni fa – si era nel 1797 – le truppe francesi entravano in Faenza, dando inizio ad una importante parentesi storica protrattasi fino al dicembre 1813.

La «battaglia del Senio», che la precedette e che si risolse in poche ore del mattino, fu un episodio «minore» da un punto di vista militare, ma la sua portata simbolica e politica fu immensa. “Essa vide un esercito giovane, molto ideologizzato, sotto la guida carismatica di un generale quasi sconosciuto, il ventisettenne Napoleone Bonaparte, portatore degli ideali della Rivoluzione, contrapposto ad un’armata raccogliticcia e scomposta (di soldati coscritti misti a contadini con i forconi e a preti e frati con il crocifisso) con cui il vacillante Stato Pontificio cercava di salvare se stesso e i rottami della vecchia Europa”.

La battaglia del Senio fu l’epilogo di una fase preparatoria iniziata un anno prima, marzo 1796, e che aveva visto i francesi penetrare in Italia con manovre fulminee e subito vittoriose, fino a dilagare nella pianura lombarda con la presa di Milano del 15 maggio.

Un mese dopo Napoleone e i suoi 60.000 uomini erano entrati a Bologna e avevano istituito, come a Milano, la Repubblica.

“L’1 febbraio 1797, da Bologna, Napoleone proclama l’invasione (o la liberazione, dipende dai punti di vista) delle Romagne. A sera i francesi sono a Imola. Da Faenza si preparano i cannoni e a fianco delle truppe regolari pontificie marcia verso il Senio un drappello di volontari capitanati da due preti, di cui uno è don Meloni, segretario del Vescovo. I regolari sono circa 3.000, un po’ meno secondo Monaldo Leopardi, padre del ben più famoso Giacomo e che di fatto ci ha lasciato una gustosissima cronaca: «La resistenza doveva farsi sul fiume [Senio] che corre fra le due città sudette. (…) i Francesi attaccarono, forti di circa diecimila uomini. I cannoni del ponte spararono, e qualche francese morì. Ben presto l’inimico si accinse a guadare il fiume; e vistosi dai popolani che i Francesi non temevano di bagnarsi i piedi: “Addio”, si gridò nel campo. “Si salvi chi può” e tutti fuggirono per duecento miglia, né si fermarono sino a Fuligno”.

Dopo Faenza, fu la volta di Forlì, Cesena, Rimini e Ravenna, occupate tra il 3 e il 4 febbraio senza alcuna resistenza. Il 19 febbraio, con le truppe francesi giunte fino alle marche e all’Umbria, a Tolentino fu firmato il trattato di pace con Pio VI. Il 16 giugno 1797 Faenza viene eletta a capoluogo del Dipartimento del Lamone nella neonata Repubblica Cisalpina.

A chi volesse approfondire questa tematica si consiglia di visitare il Museo del Risorgimento di Faenza (Palazzo Laderchi, aperto ogni sabato e domenica) dove sono esposti cimeli e documenti specifici.

N.d.R -Questa nota è tratta da un articolo di Sandro Bassi apparso in Settesere del 2 febbraio 2017, che ringraziamo.

Grazie anche al socio Marcello Bezzi che ci ha ricordato l’evento.

 

 

 

La moglie di Victor Phelps, il pilota americano colpito dalla contraerea tedesca e caduto sulla riva del Senio al confine fra Castel Bolognese e Solarolo, potrebbe venire a visitare il luogo ove l’aereo cadde.

Si chiama Norma Sue Stephenson, ha 95 anni e adesso vive a Houston nel Texas.

I figli e i tanti nipoti della vedova, quando seppero che gli Amici del Senio avevano ricordato l’episodio e collocato nel luogo una targa, dopo averci gratificati del gesto che apprezzarono molto, si attivarono presso una Fondazione locale in cerca di solidarietà. Ebbene, la Fondazione, che ha lo scopo di esaudire desideri delle persone anziane, ha deciso di pagare alla vedova il viaggio aereo per l’Italia.

Il concittadino Andrea Soglia, nostro collaboratore a cui va il merito di avere documentato l’evento –  assieme ad Andrea Raccagni e al dottor Frontali di Solarolo e di essere riuscito a scovare i parenti americani, pochi giorni fa ha realizzato la prima video chiamata con la Fondazione.

Lo scopo era quello di imbastire il viaggio per verificarne la portata.

L’ipotesi fatta è che la moglie di Victor Phelps, accompagnata da un figlio o da un nipote, arrivi in Italia il 29 aprile 2023, anniversario della liberazione di Victor dal lager in Polonia per opera dell’Armata Rossa Sovietica.

Abbiamo suggerito l’aeroporto di Bologna da dove poi la preleveremo noi, assieme al suo accompagnatore. E dove li riporteremo al termine della missione. L’idea è di ospitarli per un paio di giorni e di combinare due cerimonie: una sul campo ove l’aereo cadde e un incontro con i cittadini nella sala del Consiglio comunale, magari con la presenza dei sindaci e della stampa locale.

Saranno della partita anche i circoli Anpi di Castel Bolognese e di Solarolo e l’Associazione Pietro Costa che fin dall’inizio hanno partecipato a questa iniziativa.

Non ci saremmo mai creduti che dalla nostra piccola iniziativa avesse potuto nascere un evento di tale portata. Siamo contenti che il lavoro per valorizzare il fiume Senio, come fiume di storia e di tanto altro, stia dando dei buoni frutti.

Confidiamo che questo episodio aiuti a superare il residuo agnosticismo da parte di alcuni circa le potenzialità attrattive del nostro fiume e che finalmente si porti a termine il progetto di ciclo via del Senio e della linea Gotica che sarebbe il vettore trainante per la sua valorizzazione.

 

Continua la nostra rassegna sui molini del Senio. Di seguito una notizia dell’Amico Marcello Riccardo Bezzi.

“Il Molino dello Scodellino a Casalecchio di Castel Bolognese, fu costruito sul finire del Trecento o nei primi del Quattrocento.
Deve probabilmente il suo nome alla “scudella” di farina che il mugnaio tratteneva a compenso della molitura.”

Bella foto fornita da Marcello Riccardo Bezzi

Sullo Scodellino le notizie oramai sono tante. Potete approfondire nel  Il molino di Scodellino dal blog La Storia di Castel Bolognese.

Siamo in attesa che si allenti la vicenda del Covid per organizzare una camminata – richiesta da tanti Amici del Senio – dallo Scodellino alla Chiusa del Senio – a Tebano – da dove parte il canale dei Molini che alimenta anche lo Scodellino. BUON ANNO A TUTTI.

Un caro Amico del Senio, Marcello Riccardo Bezzi, ci ha inviato alcune notizie relative a mulini storici del Senio e del canale dei Mulini. Da oggi iniziamo la pubblicazione di queste brevi note con l’intento di costruire una mappa dei mulini del Senio e dei canali che da esso prendono (esempio, canale dei Mulini) o hanno preso vita (esempio, canale di Cotignola).

Il molino di Cuffiano ebbe origine nel 1438 con il nome di Molino di Marcazzo, poi Molino di Savurano e più tardi Molino dei conti Naldi. Da ultimo Molino di Fantaguzzi.
Ha cessato la sua attività nel 1970.

Oggi il molino Fantaguzzi è in totale stato di abbandono così come le grandi case che ha attorno. Ne abbiamo parlato e lo abbiamo documentato con foto anche in questo articolo Casse di espansione in stato di abbandono.

Forse però non tutto è perduto se, come proponiamo, la zona delle casse di espansione – dove il Molino è presente – potrà essere riconosciuta come area naturalistica di interesse e di uso pubblico.

Va anche detto che il molino di Fantaguzzi è stato inserito dall’Amministrazione comunale di Riolo Terme lungo il Percorso della memoria col quale si vogliono ricordare le “127 giornate di Riolo”. Quelle che, dal 5 dicembre “44 al 11 aprile “45, segnarono per Riolo la linea del fronte della Linea Gotica. Il molino Fantaguzzi fu il primo obbiettivo militare conquistato dalla Brigata Ebraica dopo la sua formazione. Proseguendo, liberò Cuffiano, salì sul monte Ghebbio, liberò la Serra di Castel Bolognese e proseguì verso Imola.

Proporremo all’Amministrazione comunale di Riolo Terme di collocare presso il molino una targa che ricordi il manufatto.

Per visitare il rudere, provenendo da Castel Bolognese, si scende a sinistra lungo lo stradello che si stacca dalla rotonda di Cuffiano posta sulla provinciale Riolese-Casolana. Giunti al cartello che indica i lavori delle Casse di espansione del Senio, a sinistra è visibile il rudere del mulino, oltre ad una grande casa colonica con pertinenze e un grande silos.

Foto: pervenute da Marcello Riccardo Bezzi.

 

La settimane scorsa, assieme a Franco Billi, abbiamo intervistato Pietro Lombardi ed Eva Natalina Cavini. Marito e moglie, Pietro ha 89 anni ed Eva ne ha 90. Sono sposati dal 1954.

Pietro ed Eva sono stati gli ultimi mugnai del molino di Quadalto; molino che ha cessato la propria attività alla fine degli anni cinquanta. Per molte generazioni, si pensa per secoli, questo molino, così come tutti quelli della zona, sono stati gestiti dalla famiglia Lombardi. Dopo la chiusura del mulino, Pietro ha fatto il muratore.

La chiacchierata ha ruotato attorno al Monastero delle suore Francescane Ancelle di Maria, contiguo al Santuario della Madonna delle Nevi, di cui facevano parte lavatoio e cantina, alle suore e al molino. Abbiamo parlato anche della guerra.

Il Monastero che ha vissuto di luce propria per secoli, oggi è trasformato in una foresteria. Profondamente ristrutturato, con ingenti risorse, le suore, assieme ad altre attività, gestiscono una trentina di camere a disposizione dei viandanti.

Il lavatoio era delle suore e del Monastero. Diverse persone andavano ad aiutare, fra queste Pietro e la sua famiglia. Quando avevano bisogno chiamavano da lontano (non uscivano). Oppure suonavano una campanella posta nel molino per mezzo di una cordicella che usciva dal convento.

Durante la guerra il convento ospitò l’Ospedale di Palazzuolo, poi anche quello di Marradi, dopo il suo danneggiamento.

Nel luglio del ’44, dopo un furioso bombardamento alleato con molte vittime, vi fu una rappresaglia dei tedeschi di due giorni con 44 vittime civili. Il primo giorno operarono nel marradese, il secondo si spinsero verso Fantino, fino a Palazzuolo. L’ultimo civile fu ucciso a Campergozzole nell’aia della sua casa. Gli spararono dal poggio sopra la chiesa di Lozzole.

Nella zona, c’era un capanno da caccia con un partigiano lasciato lì dentro perchè ferito. Mentre un tedesco si avvicinava fu richiamato dai suoi e fu così che quel partigiano salvò la pelle (venne poi evacuato dai suoi il giorno dopo).

Pietro narra che fra molino ed ospedale, tedeschi o i partigiani erano sempre fra i piedi per i primari obbiettivi di cibarsi e di curarsi.

Per la famiglia la paura era tanta, sapendo che se i tedeschi vedevano un partigiano potevano andarci di mezzo anche loro. Potevano essere uccisi. Per cui si aveva paura sia dei tedeschi che dei partigiani.

Pietro, allora tredicenne, rammenta che, assieme al fratello, spesso andava su con i muli fino al comando partigiano della Brigata Garibaldi di Cà di Vestro per portare la farina. Ricevendo in cambio la testa di una mucca. Quelle mucche che venivano prese ai contadini, a partire da quelli ritenuti fascisti.

Mulino e Monastero, per via dell’Ospedale che ospitava, erano continuo crocevia di passaggio fra tedeschi e partigiani, quindi fonte di continua preoccupazione per chi abitava nel luogo. Dal racconto di Pietro si capisce come l’Ospedale fosse però una sorta di zona franca dove partigiani e tedeschi si potevano incontrare senza belligerare.

Pietro racconta di quanto una mattina il professor De Pasquale fosse stato prelevato dai partigiani per andare in qualche luogo e della preoccupazione delle suore per il suo ritardare. Poi lo riportarono. Spesso i partigiani portavano con la somara feriti nell’Ospedale e si fermavano al Molino ad aspettare.

Nel 1954 Pietro sposa Eva che quindi si trasferisce a Quadalto. Anche Eva aiuta le suore nel lavatoio.

Come funzionava il lavatoio?

Si portava a bollore l’acqua, che proveniva dal molino, facendo fuoco sotto al paiolo nella “fornacella”. Di fianco, in una grande vasca venivano stesi uno sull’altro i lenzuoli. Sopra veniva posto un panno e sopra ancora la cenere. Poi si buttava l’acqua, ne servivano almeno tre paioli. L’acqua recuperava dalla cenere le sostanze detergenti e filtrando i lenzuoli li pulivano. Compiuto il suo giro l’acqua usciva dal fondo della vasca (come il mosto dal tino). Veniva raccolta, ancora riscaldata e rimessa in circolo. Più acqua si passava sui lenzuoli e più questa era calda, i panni venivano puliti meglio. Pietro soleva fare passare molta acqua e ben calda. Quando la gente vedeva il bucato molto bianco diceva che quello era il bucato di Pietro.

Il bucato dormiva nella vasca per tutta la notte. Al mattino del giorno dopo, veniva tolta la cenere, il panno e i lenzuoli gettati prima in una poi in una seconda vasca per essere sciacquati.

L’acqua recuperata durante la notte, si chiamava “ranno”, veniva riusata per lavare i panni scuri, riposti in una ulteriore vasca.

Eva ricorda quando, da ragazza, andava al fiume per lavare sul sasso i panni scuri col ranno – nelle famiglie contadine il procedimento e i mezzi erano diversi – e come questo gli “scorticava” le mani.

Pietro ed Eva ricordano che la cenere, occorrendone tanta, veniva raccolta dai contadini di tutto il paese che la tenevano da parte in appositi cassoni.

Pietro cessa l’attività del mulino alla fine degli anni cinquanta, La lavanderia continua ancora per qualche anno, lavorando solo la domenica, poi si ferma anch’essa. Arriva la corrente elettrica.

Gli ultimi ricordi di Pietro ed Eva sono per le suore e il Monastero.

Pietro dice che allora erano suore da “cerca”. Sostenevano loro e la loro missione “cercando” dai contadini. In particolare l’uva verso la valle del Senio, fino a Rivola e il vino nella parte della Toscana. Pietro ricorda i grandi tini – tre – posti nella cantina del Monastero e la pigiatura fatta con i piedi. Il vino non era venduto: era per le suore e per i viandanti che spesso bussavano al Monastero. Essi venivano serviti per mezzo dell’azionamento di una “ruota” collocata a fianco della porta di ingresso.

L’incontro si chiude con una discussione sui dialetti. Franco che mi ha accompagnato nella visita e che proviene da Marradi, dice che non capisce – o poco – il mio dialetto, mentre Pietro lo comprende meglio.

La cosa certa è che Pietro ed Eva, vissuti da sempre a Palazzuolo sul Senio, parlano un dialetto totalmente montanaro-romagnolo. Senza nessuna inflessione toscana.

Anche questo spiega di quanto sia forzata la permanenza di Palazzuolo sul Senio – fino a pochi decenni fa – Palazzuolo di Romagna, nella regione Toscana. Ma questa è un’altra storia.

Concludo questo racconto con un pensiero per Pietro ed Eva. Per dire che sono ai miei occhi persone veramente straordinarie. Hanno novant’anni, sono sposati da sessantasei, sono in buona salute. Hanno percorso una lunga vita di sacrifici e di fatica, sono passati attraverso una feroce guerra che li ha coinvolti. Hanno vissuto le profonde trasformazioni sociali, che hanno totalmente cambiato la vita delle persone, proprie dell’ultimo secolo. Ma Eva e Pietro non hanno perso il sorriso, sono persone serene. Colpisce il loro rapporto, come si parlano e si rispettano – se uno interrompe, l’altro tace. Quello che però maggiormente rimane impresso è la dolcezza dell’espressione dei loro volti, particolarmente di Eva. Sembrano persone uscite dalla tavolozza di Leonardo o di Raffaello, oppure da un set cinematografico.

Invece sono persone vere, dei nostri tempi tumultuosi, capaci però di illuminare come fari le tenebre che ci avvolgono. Persone commoventi, a cui dobbiamo rispetto e riconoscenza. Lunga e buona vita ad Eva e Pietro di Quadalto sul Senio.

 

Villa Magenta, come la Chiusaccia e come tanti altri luoghi lungo il percorso del Senio che ne hanno segnato la storia. Da Lugo notizie riferite al toponimo assai particolare. Ringrazio Paolo Gagliardi che ci fornisce l’informazione.
Da cosa nasce il toponimo Villa Magenta? Da tempo alcuni storici lughesi sono impegnati sul quesito e questo è l’ultimo aggiornamento di Claudio Gagliardi.
Sul toponimo “Villa Magenta”
Un volontario garibaldino di Lugo, forse inquadrato nei “Cacciatori delle Alpi”, partecipa alle battaglie della Seconda Guerra di Indipendenza e in particolare a quella di Magenta (4 giugno 1859), dove si batte con onore, rimane ferito e torna a casa vivo ma con una menomazione permanente alla deambulazione. Alla fine della guerra, dopo l’annessione della Romagna al Regno d’Italia (1860), il governo assegna al nostro eroe una casa e un modesto triangolo di terra da coltivare, posto tra il fiume Senio e la ferrovia Ravenna – Castel Bolognese in costruzione (sarà poi inaugurata il 23 agosto 1863).
Il garibaldino, che doveva essere una testa un po’ calda, esaltato per il suo passato, dipinge i muri della casa di rosso magenta e la definisce “Villa Magenta”. Tutti parlano della storia di quel soldato e quel nome diventa l’individuazione più facile del luogo dove abita il garibaldino.
Fenati Antonio (1860 – 1945) ha 4 figli e rimane vedovo nel 1899. Sua madre Liduina Savini (1832 – 1920) rimasta pure lei vedova di Fenati Remigio nel 1903; dopo aver retto da sola con polso fermo la famiglia patriarcale per diversi anni, decide di sistemare i figli man mano che si sposano o che si presenta qualche opportunità. Così negli anni 1911-1912 cerca una sistemazione per Antonio e la trova con l’acquisto della casa e del podere del Garibaldino.
Antonio vi si trasferisce con i suoi 4 figli e subito cerca di allargare le sue possibilità di guadagno per poter mantenere la famiglia perché il campo è troppo piccolo. Così nel 1914 egli acquista da una vedova la licenza per la vendita di “Sali e Tabacchi” e vi aggiunge la licenza per la mescita di vini e per la vendita di generi alimentari. Utilizzando un locale della sua abitazione lungo l’allora via Alberico da Barbiano (attuale via Piratello), ai piedi della vecchia salita per il ponte sul Senio, apre l’osteria che poi prende il nome di “Villa Magenta”.
L’esercizio dell’osteria riscuote un buon successo perché non c’è altro locale pubblico tra Lugo e Bagnacavallo e la proverbiale disponibilità della famiglia a preparare pasti a base di carne ai ferri e di salumi trova molti estimatori tra i mercanti e i birocciai che percorrono quella strada.
Poi scoppia la prima guerra mondiale e un gruppo di soldati durante un acquartieramento di retrovia, lascia un disegno-graffito su una parete interna della stalla in segno di gratitudine per l’accoglienza e il trattamento ricevuto. Il graffito, eseguito con cura e con una buona capacità figurativa, rappresenta un paesaggio pianeggiante attraversato da un corso d’acqua fiancheggiato da betulle; il tutto sovrastato dalla dedica: “A Villa Magenta a perenne ricordo”.
Questo diventa poi il nome dell’osteria scritto a grandi lettere sulla facciata della casa. Le pareti sono sempre di color rosso magenta, come lo aveva voluto il nostro Garibaldino, e un po’ sbiadito dal tempo, come ancora ricordano i pronipoti.
La vecchia osteria di Villa Magenta chiude nel 1930, quando viene inaugurata la nuova strada, ora statale, che dal ponte sul Senio punta direttamente verso Lugo, il ché fa sì che la vecchia casa rimanga tagliata fuori dal transito di veicoli e pedoni.
L’osteria riapre lungo la nuova strada statale conservando il nome, gestita fino al primo dopo guerra da nipoti di Antonio, poi passa varie volte di proprietà con alterne fortune. Si ricorda un periodo di grande successo quando negli anni ’50 vi si apre una pista da ballo che attira molti avventori e anche molti curiosi, al punto che il sabato sera a volte devono intervenire i Carabinieri per contenere la ressa di chi vuole solo ascoltare la musica stando sulla strada.
Un secondo periodo d’oro si ha negli anni 60 quando la gente si affolla nell’osteria per vedere in TV la trasmissione “Lascia o Raddoppia”.
Poi un graduale declino ne riduce la popolarità. Intanto il mondo e la gente attorno a Villa Magenta sono completamente cambiati, l’osteria non attira più e i gestori non riescono a trasformarla per rimetterla al passo con i tempi.
Rimane quello strano toponimo di cui molti non conoscono l’origine e che conserva il fascino di una società di 100 anni fa che sa di favola. (Claudio Gagliardi)

Ndr. Aggiungo alle info di Claudio Gagliardi che le mie reminescenze lughesi dicono che Villa Magenta, nel corso degli anni cinquanta era uno dei luoghi in cui Giovanni Battista Giuffrè, il banchiere di Dio, riceveva i clienti sottoscrittori di quote di denaro al quale prometteva interessi dal 70 al 100%. La truffa fu presto scoperta e Giuffrè morì in miseria. Particolarmente frodati i frati cappuccini (ma forse non tutti).

Foto: Raccolta di erbe sul Senio nei pressi di Villa Magenta (2019)

Carlo Bonfiglioli, un nostro caro amico, un amico del Senio di Solarolo, ricorda il due agosto di 40 anni fa. Carlo quel giorno, alle 10,15 era nella stazione di Bologna, da dove partì qualche minuto dopo.

“Buon 2 Agosto…ogni anno il mio pensiero va alla stazione di Bologna, quando 40 anni fa partii alle 10.15 sul treno diretto ad Ancona, l’ultimo che partì prima dello scoppio della bomba. Ricordo che tutti gli orari dei treni erano saltati, c’era tanta gente in fila alla biglietteria, l’atrio pieno, moltissimi giovani seduti sugli zaini nel sottopasso, alcuni suonavano le chitarre ed io ci passai tre volte prima della partenza…non era giunta la mia ora!

Perché tutto questo? Perché le vittime, i lavoratori, le persone che andavano in vacanza o ritornavano a casa, col mezzo più popolare ed economico? Quale rabbia ed odio sociale nei loro confronti può aver pensato di colpire proprio loro, che ruolo politico potevano avere per sacrificarle ad un fine così disumano e spaventoso? Chi ha armato i portatori di morte, giovani vigliacchi dall’inconsulto odio verso il popolo, verso una città ben organizzata e gestita con tanti provvedimenti sociali nel panorama italiano?

Ha vinto la teoria del “meglio il peggio” per spaventare e ricreare sulla paura una società basata sul terrore, sul ritorno ad un regime reazionario che imponga con la violenza di pochi sui molti. È 40 anni che mi pongo, ma si pone la città intera e tutta l’Italia queste domande…ci sarà una risposta che possa onorare le vittime, i feriti e le loro famiglie?!”

Ndr. Le parole di Carlo così forti e scolpite nella memoria del tempo, ci chiamano a riflettere su uno degli episodi più gravi della storia della nostra Repubblica. Fu una strage “nera”, una strage dell’odio contro il Popolo che cercava nuovi orizzonti di pace, progresso e libertà. Di quella strage non tutto è ancora chiaro. Rimangono nella nebbia i mandanti, ma l’ultima coltre deve alzarsi. E solo allora quelle 85 vittime innocenti potranno avere pace.

Racconto di Gianluigi Fagnocchi. Seconda parte.

Oggi è festa, godiamoci. Domani al lavoro. La bimba gioca, finiranno le vacanze, si ricomincerà dalla prima elementare; un bel salto, che affronterà aggrappata al piccolo peluche, compagno dalla nascita, talismano e mago consolatore. Con lui ha condiviso le prime gioie e le prime sofferenze, un compagno da presentare agli amici, ma da non condividere con nessuno; un complice che ha imparato a perdonare gli atteggiamenti non corretti, come un genitore che si ricorda di essere stato bambino.

Anche lo stropicciato bambolotto si è bagnato ed è posato su un sasso ad asciugarsi. Un gioco, un salto, un tuffo in quella corrente che muove, un urlo “Noooo mamma, non c’è più…”. Il grido di dolore di quella innocenza ferita viene accolto dal fiume nella sacralità del suo silenzio e del suo più doloroso ricordo: il fronte, la guerra, l’innocenza perduta di una generazione.

Sul Senio per la Segavecchia

Ogni combattente ha le sue ragioni, ogni controparte ha le sue ragioni, ogni guerra le trasforma in torti contrapposti … e bombe … e tombe … quante tombe! L’argine sinistro un colabrodo di postazioni scavate, silenzi di attese tombali. E le urla strazianti dei martiri … . Una fiumana. Si, ci sarebbe voluta una fiumana per sommergere la vergogna umana. Una fiumana di “quelle” e l’argine, inciso profondamente, si sarebbe sbriciolato, lasciando libera l’onda torbida a coprire tutto.

Ma no! Altri innocenti avrebbero pagato, forse anche quell’ingenuo giovane dottore che ebbe l’ardire di venirsi a fumare una sigaretta sull’argine sinistro, sfidando i cecchini dell’altro fronte. Lui che girava in bicicletta portando con se i ferri del mestiere, seghe e coltelli del macellaio, oltre alle medicine, correndo da un bisogno all’altro, compreso quello di tagliare gli arti di qualcuno finito a sfracellarsi su di una mina, per evitare il peggio.

Interrogato anni dopo sulle motivazioni più profonde del suo eroismo, dopo essersi schernito a lungo, ebbe a dire:

“Una notte sognai uno che mi disse, “non aver paura, fai il tuo dovere, ma porta sempre il cappello in testa”. Così, per provare se funzionava, andai sul fiume col cappello, mi fumai una sigaretta … e via”.
Chiunque altro, al risveglio, avrebbe detto “che strano sogno“ e sarebbe finita li. Lui no! E continuò.

“Una volta nel cuore della notte sognai mio fratello – che abitava sul fiume alla Chiusaccia – ferito fra le macerie. Ebbi come una scossa. Mi alzai in fretta per raggiungerlo di corsa in bici tra i bombardamenti, con i bengala che illuminavano il cielo, passando vicino al cimitero dove le bombe facevano saltare in aria bare squarciate. Quando trafelato arrivai da mio fratello lo trovai nelle condizione come dal sogno. Era intrappolato in una stanza ferito con un’altra persona; da una fessura riuscii a farlo curare, salvandolo. Potete chiederlo a lui che vive ancora”.

Che dire, anche quella volta non perse il cappello. Finita la guerra si continuò a morire sulle mine disseminate nel fiume sino allo sminamento sistematico di tutto l’alveo.

Ora in questa pace sembra che la memoria non abbia ragione; c’è un istinto di sopravvivenza che tenta sempre di rimuovere la memoria delle cose che ci hanno ferito, così il rischio di ricascarci aumenta. Accettiamola la memoria e ringraziamola come la campana di una piccola chiesa, posta in prossimità dell’argine, che ogni sera alle nove suona per non farci dimenticare.

A valle i bambini giocano vociando allegramente. Scendendo dall’argine verso il greto, rincorrono le rare farfalle, calpestando processioni di formiche intente nel loro turnover a rifornire la dispensa. Dopo un attimo sono tutti a rotolarsi nella piccola spiaggetta che un’ansa del fiume ha contribuito a formare e con i piedi a mollo sguazzano in attesa di fare il bagno .

L’estate finisce in fretta e, come una ramazza, le prime piogge portano via le polveri di vita, consegnandole al fiume che le porterà a purificarsi nel sale del mare. Ma non direttamente, perché nella sua timidezza il torrente si sente in colpa per i suoi momenti di secca. Lo accompagna un’amico più grande che lo guida come un maggiordomo e lo presenta al padrone di casa: un immenso buco d’acqua, come ebbe a dire un vecchio montanaro la prima volta che vide il mare.

Sulle sponde di questo catino, ancora tanti bagnanti si godono l’ultimo sole. Tra i detriti restituiti dalle onde, i bambini fanno castelli di sabbia scavando sino a trovar l’acqua penetrata. Tra le conchiglie vuote i resti di una bambola a ricordarci che anche le briciole della nostra innocenza frantumata dalla vita riescono ancora a darci emozioni pulite. A ricordarci il dolore, per farci godere la gioia.

Ringrazio Gianluigi Fagnocchi, Amico del Senio di Solarolo, che ha illuminato di ricordi la sua clausura da coronavirus.

Le foto sono tratte dal Concorso fotografico del Senio del 2017. Ringrazio gli autori.

Un bel racconto sul fiume Senio fra storia e sogno, realtà e allegoria. l’autore è Gianluigi Fagnocchi, Amico del Senio di Solarolo (Prima parte).

Un fiume, un torrente mascherato da fiume, scorre zigzagando tra la pianura che ha contribuito a creare, costretto a cantare tra le gole dei monti prima di riempire la valle. Come un ubriaco ha continuato a imitare le giravolte che pietre primordiali gli facevano fare, senza riuscire a fermarlo nella sua testardaggine, mantenuta per poter raggiungere il suo obiettivo, portare con l’acqua gli umori di questa terra, costruita dalla pioggia e dal sole grattando le pietre, sino al mare.

Si, il mare dove le acque dagli umori più diversi si mescolano senza graffiarsi, si fondono senza annullarsi completamente, dando vita alle infinite vite che nutrono l’universo. Lui non lo sa ma nel suo istinto primordiale continua a lavorare giorno dopo giorno alternando ore di riposo a momenti tumultuosi.

Come gli uomini e gli animali, è un abitudinario costretto dagli eventi ad adattarsi, ma è solo quando le acque scendono regolari dalle falde imbevute che si gode lo spettacolo che ha contribuito a creare. Ogni arbusto, ogni filo d’erba, ogni insetto, ci sono tutti, in un’armonia quasi irreale tanto è da godere. L’acqua quanto basta per non coprire i sassi che sporgono dal fondo e lentamente si consumano alla corrente che li fa sorridere, quell’acqua che gli racconta la seria “barzelletta“ della vita.

Il Senio in collina.

E’ un bel pomeriggio di sole, la prima estate. Dall’argine appare un gruppetto di bambini che giocano e lui ha un sussulto, un fremito, un brutto ricordo, la malattia della quale ha rischiato di morire. Colpa dei loro padri se un veleno lo aveva ridotto ad un larva di acqua putrida; una spanna di schiuma ricopriva la corrente, le forme di vita morivano al passaggio continuo di quella zozzeria, a cominciare dai pesci i più vitali tra gli amici dell’acqua.

Per fortuna qualcuno riuscì a capire che la morte del fiume sarebbe pian piano diventata la fine di tutti. Di certo non si è ritornati a prima del male quando il fiume veniva amato e rispettato. Il bisogno di acqua degli uomini è tanto aumentato che alla fine della stagione calda il consumo prosciuga le falde riducendo la presenza d’acqua in pozze più o meno profonde, dove i pesci si radunano per sopravvivere. Con l’acqua prelevata, gli agricoltori possono produrre di più e così sopravvivere in questo mondo globalizzato dove il vino costa meno dell’acqua.

Questa contraddizione i pesci non la possono capire. Loro, astemi per natura, si ubriacano soltanto di acqua torbida; in questo fiume ridotto a torrente dovranno aspettare la prima fiumana d’autunno che arriverà rapida, sporca e impetuosa. Tipico dei torrenti tra periodi di secca e altri di troppa acqua. Allora si vedranno zattere di detriti aggrapparsi ai pochi arbusti rimasti a sfidare la corrente: rami secchi, scorie della natura e del lavoro umano, o meglio dire dell’incuria umana, brandelli di plastica colorata che si pavoneggiano sui detriti come a vantarsi della loro non degradabilità.

La fiumana, da onda impetuosa si placa rapidamente e tutto sembra ritornare come prima. Ma non è così. Quello che non riesce ad andare al mare si deposita pian piano sul greto così che una patina di terra limacciosa copra i detriti che poi si trasformeranno in humus, terreno fertile per le tante sementi di fiori e d’erba sempre pronti a germogliare, rinnovando il tappeto ai piedi del letto. Un fiume che, come gli uomini che quando sentono mancare la vita vanno a cercare la linfa vitale tra le radici della propria esistenza, cerca tra le sorgenti che, se pure affievolite dall’arsura dell’estate, continuano ad alimentarlo. Sono loro che gli conferiscono la dignità di fiume, tra quei monti dove il bosco cresce rigoglioso, trasformando i raggi del sole in vita perenne. E’ li che, all’ombra con i piedi a mollo, una famigliola si ristora dopo aver consumato un frugale pasto.

Fusignano – Fiumana del Senio 1978

Fine della prima parte. A domani.