La seria barzelletta della vita (fine)

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Racconto di Gianluigi Fagnocchi. Seconda parte.

Oggi è festa, godiamoci. Domani al lavoro. La bimba gioca, finiranno le vacanze, si ricomincerà dalla prima elementare; un bel salto, che affronterà aggrappata al piccolo peluche, compagno dalla nascita, talismano e mago consolatore. Con lui ha condiviso le prime gioie e le prime sofferenze, un compagno da presentare agli amici, ma da non condividere con nessuno; un complice che ha imparato a perdonare gli atteggiamenti non corretti, come un genitore che si ricorda di essere stato bambino.

Anche lo stropicciato bambolotto si è bagnato ed è posato su un sasso ad asciugarsi. Un gioco, un salto, un tuffo in quella corrente che muove, un urlo “Noooo mamma, non c’è più…”. Il grido di dolore di quella innocenza ferita viene accolto dal fiume nella sacralità del suo silenzio e del suo più doloroso ricordo: il fronte, la guerra, l’innocenza perduta di una generazione.

Sul Senio per la Segavecchia

Ogni combattente ha le sue ragioni, ogni controparte ha le sue ragioni, ogni guerra le trasforma in torti contrapposti … e bombe … e tombe … quante tombe! L’argine sinistro un colabrodo di postazioni scavate, silenzi di attese tombali. E le urla strazianti dei martiri … . Una fiumana. Si, ci sarebbe voluta una fiumana per sommergere la vergogna umana. Una fiumana di “quelle” e l’argine, inciso profondamente, si sarebbe sbriciolato, lasciando libera l’onda torbida a coprire tutto.

Ma no! Altri innocenti avrebbero pagato, forse anche quell’ingenuo giovane dottore che ebbe l’ardire di venirsi a fumare una sigaretta sull’argine sinistro, sfidando i cecchini dell’altro fronte. Lui che girava in bicicletta portando con se i ferri del mestiere, seghe e coltelli del macellaio, oltre alle medicine, correndo da un bisogno all’altro, compreso quello di tagliare gli arti di qualcuno finito a sfracellarsi su di una mina, per evitare il peggio.

Interrogato anni dopo sulle motivazioni più profonde del suo eroismo, dopo essersi schernito a lungo, ebbe a dire:

“Una notte sognai uno che mi disse, “non aver paura, fai il tuo dovere, ma porta sempre il cappello in testa”. Così, per provare se funzionava, andai sul fiume col cappello, mi fumai una sigaretta … e via”.
Chiunque altro, al risveglio, avrebbe detto “che strano sogno“ e sarebbe finita li. Lui no! E continuò.

“Una volta nel cuore della notte sognai mio fratello – che abitava sul fiume alla Chiusaccia – ferito fra le macerie. Ebbi come una scossa. Mi alzai in fretta per raggiungerlo di corsa in bici tra i bombardamenti, con i bengala che illuminavano il cielo, passando vicino al cimitero dove le bombe facevano saltare in aria bare squarciate. Quando trafelato arrivai da mio fratello lo trovai nelle condizione come dal sogno. Era intrappolato in una stanza ferito con un’altra persona; da una fessura riuscii a farlo curare, salvandolo. Potete chiederlo a lui che vive ancora”.

Che dire, anche quella volta non perse il cappello. Finita la guerra si continuò a morire sulle mine disseminate nel fiume sino allo sminamento sistematico di tutto l’alveo.

Ora in questa pace sembra che la memoria non abbia ragione; c’è un istinto di sopravvivenza che tenta sempre di rimuovere la memoria delle cose che ci hanno ferito, così il rischio di ricascarci aumenta. Accettiamola la memoria e ringraziamola come la campana di una piccola chiesa, posta in prossimità dell’argine, che ogni sera alle nove suona per non farci dimenticare.

A valle i bambini giocano vociando allegramente. Scendendo dall’argine verso il greto, rincorrono le rare farfalle, calpestando processioni di formiche intente nel loro turnover a rifornire la dispensa. Dopo un attimo sono tutti a rotolarsi nella piccola spiaggetta che un’ansa del fiume ha contribuito a formare e con i piedi a mollo sguazzano in attesa di fare il bagno .

L’estate finisce in fretta e, come una ramazza, le prime piogge portano via le polveri di vita, consegnandole al fiume che le porterà a purificarsi nel sale del mare. Ma non direttamente, perché nella sua timidezza il torrente si sente in colpa per i suoi momenti di secca. Lo accompagna un’amico più grande che lo guida come un maggiordomo e lo presenta al padrone di casa: un immenso buco d’acqua, come ebbe a dire un vecchio montanaro la prima volta che vide il mare.

Sulle sponde di questo catino, ancora tanti bagnanti si godono l’ultimo sole. Tra i detriti restituiti dalle onde, i bambini fanno castelli di sabbia scavando sino a trovar l’acqua penetrata. Tra le conchiglie vuote i resti di una bambola a ricordarci che anche le briciole della nostra innocenza frantumata dalla vita riescono ancora a darci emozioni pulite. A ricordarci il dolore, per farci godere la gioia.

Ringrazio Gianluigi Fagnocchi, Amico del Senio di Solarolo, che ha illuminato di ricordi la sua clausura da coronavirus.

Le foto sono tratte dal Concorso fotografico del Senio del 2017. Ringrazio gli autori.

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