La seria barzelletta della vita
Un bel racconto sul fiume Senio fra storia e sogno, realtà e allegoria. l’autore è Gianluigi Fagnocchi, Amico del Senio di Solarolo (Prima parte).
Un fiume, un torrente mascherato da fiume, scorre zigzagando tra la pianura che ha contribuito a creare, costretto a cantare tra le gole dei monti prima di riempire la valle. Come un ubriaco ha continuato a imitare le giravolte che pietre primordiali gli facevano fare, senza riuscire a fermarlo nella sua testardaggine, mantenuta per poter raggiungere il suo obiettivo, portare con l’acqua gli umori di questa terra, costruita dalla pioggia e dal sole grattando le pietre, sino al mare.
Si, il mare dove le acque dagli umori più diversi si mescolano senza graffiarsi, si fondono senza annullarsi completamente, dando vita alle infinite vite che nutrono l’universo. Lui non lo sa ma nel suo istinto primordiale continua a lavorare giorno dopo giorno alternando ore di riposo a momenti tumultuosi.
Come gli uomini e gli animali, è un abitudinario costretto dagli eventi ad adattarsi, ma è solo quando le acque scendono regolari dalle falde imbevute che si gode lo spettacolo che ha contribuito a creare. Ogni arbusto, ogni filo d’erba, ogni insetto, ci sono tutti, in un’armonia quasi irreale tanto è da godere. L’acqua quanto basta per non coprire i sassi che sporgono dal fondo e lentamente si consumano alla corrente che li fa sorridere, quell’acqua che gli racconta la seria “barzelletta“ della vita.
E’ un bel pomeriggio di sole, la prima estate. Dall’argine appare un gruppetto di bambini che giocano e lui ha un sussulto, un fremito, un brutto ricordo, la malattia della quale ha rischiato di morire. Colpa dei loro padri se un veleno lo aveva ridotto ad un larva di acqua putrida; una spanna di schiuma ricopriva la corrente, le forme di vita morivano al passaggio continuo di quella zozzeria, a cominciare dai pesci i più vitali tra gli amici dell’acqua.
Per fortuna qualcuno riuscì a capire che la morte del fiume sarebbe pian piano diventata la fine di tutti. Di certo non si è ritornati a prima del male quando il fiume veniva amato e rispettato. Il bisogno di acqua degli uomini è tanto aumentato che alla fine della stagione calda il consumo prosciuga le falde riducendo la presenza d’acqua in pozze più o meno profonde, dove i pesci si radunano per sopravvivere. Con l’acqua prelevata, gli agricoltori possono produrre di più e così sopravvivere in questo mondo globalizzato dove il vino costa meno dell’acqua.
Questa contraddizione i pesci non la possono capire. Loro, astemi per natura, si ubriacano soltanto di acqua torbida; in questo fiume ridotto a torrente dovranno aspettare la prima fiumana d’autunno che arriverà rapida, sporca e impetuosa. Tipico dei torrenti tra periodi di secca e altri di troppa acqua. Allora si vedranno zattere di detriti aggrapparsi ai pochi arbusti rimasti a sfidare la corrente: rami secchi, scorie della natura e del lavoro umano, o meglio dire dell’incuria umana, brandelli di plastica colorata che si pavoneggiano sui detriti come a vantarsi della loro non degradabilità.
La fiumana, da onda impetuosa si placa rapidamente e tutto sembra ritornare come prima. Ma non è così. Quello che non riesce ad andare al mare si deposita pian piano sul greto così che una patina di terra limacciosa copra i detriti che poi si trasformeranno in humus, terreno fertile per le tante sementi di fiori e d’erba sempre pronti a germogliare, rinnovando il tappeto ai piedi del letto. Un fiume che, come gli uomini che quando sentono mancare la vita vanno a cercare la linfa vitale tra le radici della propria esistenza, cerca tra le sorgenti che, se pure affievolite dall’arsura dell’estate, continuano ad alimentarlo. Sono loro che gli conferiscono la dignità di fiume, tra quei monti dove il bosco cresce rigoglioso, trasformando i raggi del sole in vita perenne. E’ li che, all’ombra con i piedi a mollo, una famigliola si ristora dopo aver consumato un frugale pasto.
Fine della prima parte. A domani.
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